Nonostante Napoli abbia favorito l’ispirazione di ritrattisti specializzatisi nella resa dell’immobile passività spettatrice del degrado, è pur vero che una discreta quota di laboriosità esiste da qualche parte. La prima cosa che viene in mente è l’oleografica “arte di arrangiarsi”, condizione di estrema frenesia creativa e risolutiva di un popolo che si arrotola le maniche e cerca di tirar avanti. Sotto al sole di tutti i giorni o sotto le bombe del ’45. O fra sacchetti di spazzatura, ordigni post-moderni figli e nipoti delle ideologie del consumo.
Quindi il campo semantico che attraversiamo è quello dell’irrequietezza, dell’agitazione, dei movimenti continui. Certo vanno fatte le dovute proporzioni: evidentemente Arteteca affligge un napoletano su 50, altrimenti la città sarebbe seconda solo a Tokio per dinamismo sociale. Anzi ci si augura che Arteteca mieta ancor più vittime in previsione dei duri tempi che l’economia italiana si appresta a vivere. E se una larga diffusione del morbo possa servire a dare ritmo incalzante ai timidi ma significativi accenni di benessere sociale (ZTL, più trasporti pubblici e meno auto, ristrutturazioni urbanistiche, salvaguardia del patrimonio storico-culturale…) ci si augura che il morbo alberghi i locali del Municipio per parecchie amministrazioni.